martedì 25 aprile 2017

ARTICOLANDO ( 8 ) : DUE ELABORATI DEL POETA DIALETTALE E TRADUTTORE MARCO SCALABRINO DAL TITOLO " U PRINCIPINU" e "CALLIMACO"






Articolando 



Articolando, e' una nuova rubrica, nasce per dar voce a tutti gli amanti della poesia, dell'arte, della storia,  della pittura, della critica letteraria attraverso recensioni, relazioni e articoli strettamente culturali. Chiunque volesse pubblicare può farlo mandando i propri scritti all'indirizzo di posta elettronica tonycausi@alice.it  grazie!

In questo n.8  ritroviamo il  bravo poeta dialettale, valente e originale traduttore e scrittore, si tratta di Marco Scalabrino con due elaborati : uno dal titolo "U principinu" e l'altro "Callimaco". 

Buona lettura a tutti voi !


Mario Gallo

u principinu


di Marco Scalabrino


Che c’entri la globalizzazione (?!) ci colpisce che questo volume, pubblicato in settecento copie col patrocinio della Regione Siciliana, dell’Assemblea Regionale Siciliana e della Fondazione Ignazio Buttitta di Palermo, sia stato stampato in Germania, dalle Edition Tintenfass.
Non i contenuti e le forme de le petit prince, né i contenuti e le forme della versione in lingua italiana a noi più vicina saranno all’attenzione di questa breve testimonianza, quanto piuttosto i temi e soprattutto gli esiti di questa ennesima versione. Come non mai possiamo affermare ennesima versione, giacché le petit prince, che ci risulti, è stato tradotto ad oggi in oltre 220 idiomi, dall’afrikaans allo zulu, dal bengalese allo yiddish, passando per l’armeno, il lituano, lo swahili e perfino l’esperanto, il gaelico, il latino, e ciò fa di le petit prince una fra le opere più diffuse, conosciute e lette al mondo. Tant’è che, soltanto in Italia, essa è stata adattata, oltre che nella lingua nazionale, altresì nei dialetti bergamasco, bolognese, friulano, milanese, napoletano, piemontese, sardo, veneziano e, ora, anche siciliano.
La lettura della traduzione, che per quanto di nostra conoscenza è la prima in siciliano e quindi essa pure da considerarsi un originale, mentre il testo le petit prince di Antoine De Saint-Exupéry è da intendersi quale l’opera prima alla quale la traduzione fa riferimento, ci fornisce il destro per numerose notazioni sul dialetto siciliano, su talune delle quali, succintamente, di seguito argomenteremo. Ad iniziare dalla didascalia relativa alla illustrazione che per prima incontriamo all’interno, la quale, a ben leggerla, si mostra come una sorta di identikit del traduttore e ne “tradisce” nettamente la provenienza. La frase in argomento è: “Jò criu chi iddu, pi jirisinni, apprufittau di na migrazioni d’aceddi sarvaggi.”
Ìu, èu, , ièu, sono alcune tra le tipologie, qua e là usate in Sicilia, per esprimere il pronome personale “io” e ognuna di esse gli studiosi hanno attribuito a una determinata localizzazione geografica. E così, per dirla col monumentale VOCABOLARIO SICILIANO Piccitto – Tropea – Trovato, “iò” appartiene preminentemente alla circoscrizione “TP 20”, ovvero, verifichiamo nel reticolato della cartina ivi inclusa, alla punta più occidentale della Sicilia, alla provincia di Trapani. Un percorso così sinuoso per proclamare che Mario Gallo è trapanese e che a motivo di ciò le peculiarità che ne denunciano tale provenienza sono insite nella sua parlata e correnti nella sua scrittura; l’impiego esclusivo del pronome “iò” ne è palese riprova. La forma Jò, infatti, è diffusa nell’aria della Sicilia nord-ovest, area rappresentata dai comuni di Buseto Palizzolo, Custonaci, Erice, Favignana, Paceco, San Vito Lo Capo, Trapani e Valderice.
Quella posta in essere da Mario Gallo è “traduzioni dû francisi ‘nsicilianu”. Ecco, notiamo, egli utilizza le preposizioni articolate contratte, che caratterizza con l’accento circonflesso, per cui troveremo: dû francisi, ê picciriddi, ntô munnu, dâ natura, â storia, pâ virità, nnâ me vita, ô stessu liveddu, pî ranni, nô misteru, cû tiliscopiu, dî cosi, câ so pecura, chî matiti, pû culuri, dî baobab, ntê visciri, eccetera. Forme che sono in buona sostanza quelle proprie della parlata e di questa trasmettono l’immediatezza; mentre, per contro, il siciliano letterario lascia separate le due parti morfologiche e preferisce la soluzione preposizione più articolo.
Il dialetto siciliano: i suoi lemmi che tuttora noi adoperiamo con naturalezza, con proprietà di significato, con i quali assolviamo egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione, che fanno parte a pieno titolo dell’odierno, nostro, quotidiano conversare. Orbene, quantunque pregni di vitalità, di attualità, essi sono antichi di secoli, quando non addirittura di millenni; ma di ciò non abbiamo consapevolezza, perché, invero, forse mai ci siamo interrogati in tal senso. Il siciliano, infatti, le cui radici (diciamo così ufficiali) affondano nel lontano 424 a.C. con la virtuale costituzione ad opera di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”, è un organismo vivo, palpitante, un organismo capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è “incontrato”, capace di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, originarie fondamenta. E così si avvicendano in epoche successive il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma in definitiva sempre una lingua, una sola: il siciliano. Tra le notazioni doverose su questo lavoro di Mario Gallo è da rilevare, pertanto, quella afferente alla scelta lessicale; scelta che, estraendo appunto dall’incommensurabile patrimonio del nostro dialetto voci, espressioni, soluzioni assai felici, impreziosisce la traduzione. Ne proponiamo solo pochi eloquenti esempi, con a fianco in parentesi il corrispettivo in lingua italiana: passatera (incidente), ‘nfastiriatu (di malumore), ‘nfrinzai (tirai fuori), tistiannu (scrollò il capo), ntracchiatu (elegante), arrunchianu i spaddi (alzeranno le spalle), na larma chiù ranni (letteralmente una lacrima, poco più grande), cuddata dû suli (letteralmente tracollo del sole, tramonto), alluccutu (stupefatto), zicchiava (sceglieva), munciuniatu (sgualcito), tampasiari (indugiare), fa attaccari i nervi (è irritante), siddiarsi (letteralmente scocciarsi, annoiarsi), vavusu (vanitoso), quannu ammicciau (appena scorse), arrusciu (innaffio), vecchiu bonentu (vecchio signore), mazzacani (grosse pietre), abbanidduzza (semiaperte).
Peculiarità del dialetto siciliano, saldamente legata al latino, è costituita dalla perifrastica (da perifrasi: giro di parole), che in siciliano non è passiva come nel latino e viene resa mutando il verbo Essiri in Aviri. Il latino mihi faciendum est, difatti, in italiano si volge con la perifrasi io debbo fare, o consimili, mentre il siciliano lo rende con aju a fari. E, nel principinu: aviti a pinzari, dovete pensare, si ci avâ diri, bisogna dire, m’appâ fari vecchiu, devo essere invecchiato.
Come del resto è già avvenuto in altre lingue, nel siciliano il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le funzioni di verbo ausiliare: m’avissi piaciutu, mi sarebbe piaciuto, avissi statu, sarebbe stato. Si è verificato altresì il ripiegamento del modo Condizionale a vantaggio del Congiuntivo: truvassiru, troverebbero, fussi, sarebbe, facissi, farebbe, lassassi, lascerebbe, e del tempo Passato Prossimo a beneficio del Passato Remoto: ‘ncuntrai, ho incontrato, campai, ho vissuto, accattai, ho comperato …      
Nel dialetto siciliano manca il tempo futuro dei verbi. “Come interpretare questa anomalia? Ecco lo spunto – asserisce Paolo Messina – per un nesso fra lingua e cultura, modi di essere e di pensare. È la consapevolezza storica dell’esserci heideggeriano a produrre la riduzione continua del futuro a presente, all’hic et nunc, e ciò nel pieno possesso del passato ormai definitivamente acquisito. I siciliani sono padroni del tempo o, per dirla con Tomasi di Lampedusa, sono Dei. Ma essere (o ritenere di essere) padroni del tempo può voler dire dominare mentalmente la vita e la morte, avere la certezza della propria intangibilità solo nel presente, un presente che si appropria del tempo futuro per scongiurare la morte, ombra ineliminabile dell’esserci. Quello che conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si fondono o si confondono.” Manca il tempo futuro e ogni proposizione riguardante un’azione futura viene costruita al presente e al verbo si associa un avverbio di tempo. Il principinu non deroga a tale precetto: ti pozzu aiutari ‘n jornu, potrò aiutarti un giorno, tu rumani sî luntanu, tu sarai lontano, capisci allura, capirai …  
Nel dialetto siciliano occidentale (ossia delle parlate del trapanese, dell’agrigentino centro occidentale e di parte del palermitano) è inoltre del tutto assente il dittongo metafonico, ovvero la dittongazione della vocale accentata: vientu per ventu, fierru per ferru, buonu per bonu, truonu per tronu, che è invece presente nelle parlate della Sicilia centro-orientale, ossia nelle zone del sostrato siculo. Per l’assenza della metafonesi, osserva Giorgio Piccitto, il dialetto siciliano-occidentale si distacca da tutti gli altri dialetti centro-meridionali.  
Capita persino nelle migliori famiglie, e neppure stavolta, probabilmente a causa della nefanda precipitazione di chiudere che sopravviene ogniqualvolta si è alle stampe, vi si è sfuggiti, di inceppare in qualche svista. Convinti come siamo che viceversa, con un pizzico più di attenzione, vi si sarebbe potuto ovviare provvedendo alla loro corretta distinzione ortografica, rileviamo nondimeno l’incongruenza nella scrittura di cu sî? chi sei, cu veni, chi verrà, cu siti?, chi siete? pronome, e cu tia, con te, cu l’occhi, con gli occhi, cu iddu, con sé, preposizione.

Ciò malgrado, un plauso a Mario Gallo e buon principinu a tutti.   

§ § §

Callimaco, 310 ca. a.C.

di Marco Scalabrino

O tu ca passi … / ricordati ca sugnu … patri / d’un Callimacu natu nta Cireni / … pueta”;
Passanti, tu si’ accantu di la tomba / di lu figghiu di Battu, / bravu comu pueta.”

Biografia essenziale – luogo di nascita, paternità e (ribadito) status di poeta – fornitici di prima mano, rispettivamente dagli epitaffi per il padre, Batto, e per se stesso.
A corredo di questo succinto elaborato su Callimaco, poeta, erudito, precettore, catalogatore della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, ricorreremo a taluni convenienti cenni e, quanto a ciò che più ci preme in questa sede: la poesia, come egli la percepì e la realizzò, al supporto dello stesso autore.
E ci avvarremo – in apertura un anticipo – di un risicatissimo numero di versi, per giunta nella loro traduzione in Dialetto operata da Salvatore Camilleri, poeta e letterato siciliano tra i più insigni del secondo Novecento, il quale in proposito appunta: “Con Callimaco la poesia greca si rinnova, e per le mutate condizioni politiche, quali sono quelle che seguono il grandioso sogno di Alessandro, e per una nuova concezione della vita, a misura d’uomo, più legata alla realtà, al contingente. Di questa poesia, egli è il poeta più alto, il teorico più illuminato, l’artista più completo.”

La poesia di Callimaco rompe col “canto unico e continuato”, non celebra più il mito degli dei e degli eroi. Essa predilige “la brevità e la leggerezza”, congiunte alla raffinatezza dello stile, e per prima intese indirizzarsi non alla moltitudine ma a un uditorio selezionato che ne cogliesse e apprezzasse lo spirito, l’erudizione, la grazia, l’ironia. Ma l’aspetto più rimarchevole, determinante, che in definitiva ci incanta, è quello del poeta dalla consapevolezza e dalla originalità assolute, dell’innovatore il quale concepisce che la poesia deve inoltrarsi per i sentieri inusitati e non già ripercorrere le piste battute, deve trovare in sé la propria autonoma giustificazione – la nozione dell’arte per l’arte – e sottrarsi ad ogni finalità morale, pedagogica, civile, religiosa ...

Pueta, si addevi / ‘n-animali pi fari un sacrifiziu, / criscilu beddu grassu. /
Però la puisia l’hâ fari sèngula. / Pi di chiù ti cumannu di non fari /
la stissa strata di li carriaggi / unn’è ca tutti passanu a fudduni. /
Non mettiri li roti / di li to’ carrioli / unni ci sunnu già li ntacchi fatti, /
nta la carrata granni. / Pigghia trazzeri novi / puru si sunnu stritti.”

E ulteriormente proclama:

Odiu la puisia fatta a stigghiola / e la strata cumuni, ca la fudda /
scarpisa d’ogni parti. / Non m’attira / n’amanti ca si duna a chistu e a chiddu. /
Non bivu a la funtana di la chiazza. / Disprezzu chiddu c’apparteni a tutti.”

Quest’ultima altresì nella versione in lingua allestitane da (un altro illustre siciliano) Salvatore Quasimodo: “Non amo la poesia comune e odio / la strada aperta a chiunque. / Odio un amante goduto da tutti / e non bevo a una pubblica fontana. / Odio ogni cosa divisa con altri.”

Non senza ragione dunque, Callimaco fu definito il più moderno tra i Greci, si è parlato della sua quale l’archetipo di una visione nuova della poesia, antesignana quasi di quella moderna.

In polemica con le accuse mossegli:

Dicinu ca non aju / mancu scrittu un puema, granni e grossu, /
di milli e milli canti, / dicantannu li re / o li superbi eroi di lu passatu, /
ma sulu puisii di pocu versi, / com’è ca li po fari un picciriddu”,

egli ribatté:

“Canciati sistema; / mparati a giudicari / la puisia cu l’arti, / non cu la longa
ammàtula / pertica pirsiana, / e non m’addumannati / canti comu li trona
ca ribbùmmanu! / Non è còmpitu miu, / ma còmpitu di Giovi truniari.”


Callimaco, dopo oltre duemila anni, ancora esemplare.


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